The Smashing Pumpkins sono un gruppo musicale alternative rock statunitense formatosi a Chicago nel 1988. La band nasce dall’idea di Billy Corgan (voce e chitarra) e James Iha (chitarra), all’epoca due ragazzi appassionati principalmente di musica hard rock, new-wave e psichedelica.
Il tredicesimo album della band americana, pubblicato un anno dopo la trilogia sperimentale di Atum, è probabilmente il loro migliore lavoro dai tempi di Oceania del 2012, grazie alle sue chitarre ruggenti e alle melodie memorabili.
“Aghori Mhori Mei” è il 13esimo album degli Smashing Pumpkins: un ritorno alle sonorità oscure e potenti del passato, ispirato alle sonorità della band dei primi anni ’90, quando chitarre, basso, batteria e voci taglienti dominavano le composizioni della celebre band di Chicago.
La copertina nera è ispirata dalla fotografia scattata dalla sonda Cassini–Huygens che ritrae Titano, una delle lune di Saturno, dietro la cintura che circonda il secondo pianeta gassoso più imponente del Sistema Solare. Un titolo annunciato a sorpresa solo un paio di settimane prima dell’uscita in digitale, in cui le chitarre distorte sono le protagoniste assolute in un lavoro che anche nei mid-tempo ha un suono robusto.
10 sono le tracce di “Aghori Mhori Mei” per una durata di circa 45 minuti, che segnano un ritorno all’urgenza degli esordi dei Pumpkins, scritte in prevalenza da Billy Corgan, accanto ai suoi compagni di avventura, Jimmy Chamberlin e James Iha.
“Durante la composizione del nuovo album mi ha incuriosito il logoro assioma, ‘non puoi tornare a casa di nuovo’ – spiega Corgan – “che personalmente ho riscontrato essere vero nella forma, ma che mi ha fatto pensare ‘e se ci provassimo comunque? ’ Non tanto nel guardare indietro con sentimentalismo, ma piuttosto come mezzo per andare avanti… per vedere se, nell’equilibrio tra successo e fallimento, il nostro modo di fare musica dei primi anni ‘90 poteva funzionare ancora…”
Billy Corgan (voce, chitarra, basso, tastiere); James Iha (basso, chitarra, cori); Jimmy Chamberlin (batteria)sono i componenti del gruppo.
Milionarie le vendite della discografia targata Smashing Pumpkins, “Gish” (1991), “Siamese Dream” (1993), “Mellon Collie and The Infinite Sadness” (1995), “Adore” (1998), “Machina/The Machine of God” (2000), ne sono un esempio, per un totale di oltre 30 milioni di album venduti nel mondo, a cui si aggiungono Grammy Awards, MTV VMA e parecchi altri riconoscimenti.
Gli Smashing Pumpkins sono attualmente in tour con i Green Day: il Saviors Tour durerà fino a fine settembre. Aghori Mhori Mei, è un disco che arriva nel bel mezzo del tour nordamericano della band.
Solo un anno dopo la rock opera in tre atti “Atum “, gli Smashing Pumpkins ritornano in scena con questo “Aghori Mhori Mei”.
È opinione comune che gli Smashing Pumpkins abbiano smesso di pubblicare album che fossero buoni dall’inizio alla fine con “Machina/The Machine Of God”, e anche su quest’ultimo si potrebbe aprire un lungo e pernicioso dibattito.
In ogni caso, fermo restando che la produzione della band post-reunion non ha mai smesso di oscillare tra il sufficiente (“Oceania”, 2012) ed l’insufficiente (il punto più basso raggiunto, almeno nel giudizio di chi scrive, risulta “Zeitgeist”, 2007), bisogna ammettere che, nell’ambito di una prolificità motivata più dall’ego di Billy Corgan che da effettive esigenze artistiche, è possibile comunque assemblare una playlist godibile, un pugno di brani dove ritrovare quel talento compositivo a metà tra il melanconico ed il rabbioso che aveva stregato un’intera generazione di (allora) adolescenti.
Insomma, pezzi come “Again Again Again” (da “American Gothic”, 2007), “Panopticon” (da “Oceania”), “A Song for A Son” (dal progetto “Teargarden By Kaleidyscope”, mai completato), “Knights Of Malta” ed il tuffo nell’alternative rock anni ’90 di “Silvery Sometimes” (“Shiny and Oh So Bright, Vol. 1”) sono la testimonianza musicale di un artista comunque attivo e, se non completamente lucido, mosso almeno da una sana curiosità. Esagerando col garantismo, si potrebbe affermare che persino nelle recenti prove, i prolissi “Cyr” e “Atum” (la cui qualità media fa dubitare davvero che l’autore di “Mellon Collie And The Infinite Sadness” sia presente), ci sia qualche delizia nascosta, a patto di grattar via la crosta di synth-pop che tocca ogni solco di quei dischi.
A differenza dei suoi predecessori, “Aghori Mhori Mei” (“Senza Paura Nel Mio Cuore”) entra nel mercato discografico in modo discreto, una promozione quasi inesistente e, soprattutto, tracklist e minutaggio contenuti.
A questo primo sollievo, poi, si aggiunge la sorpresa per una scrittura concisa e una sobrietà negli arrangiamenti che non si vedeva da parecchio, in casa Corgan, con il musicista di Chicago che afferma di aver ripassato la propria produzione degli anni Novanta, ritrovandone l’energia e mediandola, a nostro avviso, con la razionalità (a tratti un po’ ingessata) di un uomo alla soglia dei sessant’anni.
In quest’ottica, non stupisce che il disco sia apra con il vorticare di chitarre elettriche di una “Edin” dalla struttura debitrice di “Cherub Rock”, a cui però bastano pochi secondi per mostrare quanto il senso delle cose sia mutato in questi decenni, di come l’urgenza di un’epica chiamata alle armi abbia lasciato il posto alla serena constatazione di avere ancora forza dalla propria parte, e di aver ritrovato l’alchimia con gli storici sodali James Iha (chitarra) e Jimmy Chamberlin (batteria).
Il brano funge comunque da dichiarazione d’intenti: la successiva “Pentagrams”, infatti, nonostante qualche eccesso di synth, recupera il gusto del refrain a presa rapida che avevamo apprezzato nei pezzi più orecchiabili di “Machina” (“Raindrops + Sunshowers”, ad esempio), “Sighommi” (saggiamente scelta come singolo) è un riuscitissimo numero grunge dalla melodia contagiosa, e per pochi minuti sembra davvero che da “Gish” sia passato a malapena un anno (e non i trenta abbondanti certificati dal calendario), mentre il tambureggiare incalzante e gli archi di “Pentecost” rimandano a “Tonight, Tonight”, anche se qui il tono è da ballata nostalgica e non quello di un invito a vivere il presente.
Anche la seconda parte del lavoro riserva qualche soddisfazione: “Sicarus” avanza come fosse un brano groove metal ed è al tempo stesso ingentilito dagli interventi della tastierista Katie Cole ai cori, mentre “Goeth The Fall” è fondamentalmente un buon pezzo indie pop che si rifà, nei giri di chitarre, ai Sonic Youth di “Rather Ripped”.
“Aghori Mhori Mei” è, di conseguenza, un gioco degli specchi autoreferenziale, in cui ogni riflesso rimanda ad un’immagine del passato, che può essere sì invecchiata meglio (“Sighommi”, “Pentecost”) o peggio del previsto, il pop di “Who Goes There” sembra preso da uno degli ultimi album degli U2, mentre “999”, già dal titolo poco invitante, vira improvvisamente verso un improbabile interludio stoner, ma in ogni caso, porta con se il peso dell’età in maniera evidente.
Dove trovare, allora, il Billy Corgan del 2024? Basandoci sui lavori precedenti, non ci stupirebbe di scorgerlo dietro la conclusiva “Murnau”, una tenera ballata condotta dal pianoforte ma deturpata da pacchiani interventi delle tastiere, o nell’hard rock che si dimena senza una direzione precisa di “War Dreams Of It Self”. Nel presente, insomma, Corgan sta dove l’avevamo lasciato, a riempire di suoni e idee abbozzate ogni angolo, per nascondere la mancanza di ispirazione, e questa è davvero l’unica notizia poco confortante di “Aghori Mhori Mei”, che nei momenti migliori invece si rivolge ai fan più fedeli, visto che sono loro a meritarsi, dopo tante delusioni, un album nostalgico ma da ascoltare con piacere, senza sorrisi di circostanza o imbarazzo.
L’album è un colpo di coda inaspettato? Ammiccamento piacione all’effetto nostalgia anni ’90? Probabilmente entrambe le osservazioni sono corrette, fatto sta che questo album è finalmente degno di portare il nome Smashing Pumpkins, sebbene di fatto questa non sia più una band da tantissimi anni, pur provando a far loro il verso, “Aghori Mhori Mei” si porta a casa una sufficienza abbondante.
Un ascolto ad un nuovo album degli Smashing, glielo si dà sempre, pur consapevoli che gli anni d’oro sono ahimè finiti da tempo.
Le prime impressioni, a partire dal brano iniziale Edin in pieno stile grunge, sono molto positive. L’ arpeggio introduttivo lascia presto spazio a ruvidi riff di chitarra in stile Black Sabbath, mentre la voce di Corgan è intima ed espressiva come nei suoi lavori migliori.
Pentagrams e 999 mostrano il lato più progressive degli Smashing Pumpkins, abili a rendere composizioni complesse e stratificate assolutamente gradevoli all’ascolto.
War Dreams of It selfe Sicarus hanno l’energia grezza e disperata di Bleach dei Nirvana, oltre a mostrare le straordinarie doti tecniche del chitarrista James Iha (sostituito recentemente dal vivo dalla nuova chitarrista Kiki Wong), che è tornato, dopo anni di sperimentazioni spesso cervellotiche, a fare ciò che conosce meglio, cioè grandi riff e grandi assoli.
Il pianoforte in apertura di 999 addolcisce ancora la durezza dell’album, ma dura pochi secondi perché il muro sonoro si rilancia con una serie di riff e power chord alla Tool/Porcupine Tree, non ho dubbi che questo brano diventerà un classico ai loro concerti, ha quel riff tetro che ti rimane in testa e non ti stanchi di riascoltare.
Un altro dei punti di forza della band è il drumming implacabile dello storico batterista Jimmy Chamberlin, ben supportato dal basso di Jack Bates (figlio di Peter Hook, membro fondatore dei Joy Division e dei New Order) e dalle tastiere cinematiche di Katie Cole, che presta la sua voce delicata ai cori.
Pentecost e Murnau sono brani in cui l’orchestra è la grande protagonista, mentre Who Goes There è la canzone più diversa dal loro consueto stile, un mix tra un arioso brano yacht rock e un pezzo dream pop alla Beach House.
Tra i (pochi) brani mid-tempo di Aghori Mhori Mei, spicca la splendida Goeth the Fall, che farà venire i brividi a chi ha amato 1979: dalla melodia al maestoso ritornello, passando per il bridge.
Goeth the Fall ha tutte le qualità per diventare un classico nel repertorio degli Smashing Pumpkins.
Aghori Mhori Mei è davvero un album energico, con alcuni momenti salienti pregni di rock, alternative rock, un passaggio a suo modo sperimentale, piuttosto che accomodante, un’intrigante dichiarazione artistica, una gratifica per coloro che amano tutte le differenti ere della band, un lavoro che auspica un futuro ancora splendente e fulgido per la band di Chicago.
Personalmente sono sempre stata una fan degli Smashing Pumpkins anche quando non ho apprezzato in toto i loro ultimi lavori.
Dopo Zeitgeist, ultimo loro album degno di nota, figlio di una reunion attesa dopo lo scioglimento nel 2000, si sono susseguiti dischi ambiziosi con canzoni a tratti emozionanti ma non indelebili, insomma non così impattanti come l’era fino ad Adore che ha conosciuto il successo planetario della band di Chicago.
Le fiammate di una ripresa miracolosa della loro produzione si avvertono già con l’opener Edin, un brano ruvido di oltre 6 minuti che ricorda i lavori svolti su Gish e Siamese Dream: pennate pesantemente doom, riff granitici e improvvise pause con la voce di Corgan che crea tensione, leggeri accordi in sottofondo, pausa, Chamberlin che fa sentire le bacchette e poi via di nuovo con un riff ripetitivo e distorsori a piena potenza. Non mi sembra vero di quanto sto ascoltando, mi dico.
Gli arpeggi dissonanti di Pentagram, altri 6 minuti abbondanti di linee goth toccanti, confermano che gli Smashing Pumpkins fanno sul serio, si sente che Corgan a questo giro è in buona vena, un pezzo sugli amori che non dovrebbero mai morire.
Quindi un ritorno non tanto agli anni 90, con la potenza dell’alt rock e metal moderno, senza essere paraculi rifacendo se stessi, ma tornando ad essere se stessi, più adulti e probabilmente più sereni. Sono i Smashing Pumpkins che vogliamo.
Secondo me, forse, è dai tempi di Oceania del 2012 che la band americana non pubblicava un album cosi ispirato, compatto, ricco di chitarre ruggenti e di melodie memorabili.
Aghori Mhori Mei è un progetto che è riuscito perfettamente nell’intento di andare verso il futuro prendendo il meglio di quanto fatto dalla band in passato un ritorno in grande stile, che potrebbe diventare la grande sorpresa rock del 2024.
Il disco è stato scritto, prodotto e registrato interamente da Corgan con gli Smashing Pumpkin ed è stato realizzato negli ultimi anni tra un concerto e l’altro del tour che pochi giorni fa ha portato la rock band americana ad esibirsi anche in Italia, al Lucca Summer Festival.
L’altra cosa particolare è che, in un mondo fatto di album che escono dopo aver fatto già ascoltare tutti i brani, tra singoli, street single e pubblicazioni digitali, il nuovo album degli Smashing Pumpkins sarà disponibile esclusivamentea partire dalla release date e non prevede alcun teaser o anticipazione per i fan.
Aghori Mhori Mei uscirà in formato fisico il prossimo novembre 2024, mentre lo streaming è già disponibile.
Da Parte mia è tutto.
Alla Prossima da SonoSoloParole.