Il 29 novembre è uscito il nuovo album di Cesare Cremonini: ALASKA BABY dopo due anni e mezzo di attesa, ottavo album in studio della carriera solista di Cesare e dodicesimo della sua venticinquennale carriera.
Cremonini è stato il frontman del gruppo italiano Lunapop, che ha riscosso un grandissimo successo con l’album Squérez? (1999) vendendo oltre un milione e mezzo di copie ma nel 2002 annunciò ufficialmente lo scioglimento del gruppo, proseguendo con successo nella sua carriera solista e pubblicando, nel corso degli anni, sette album in studio, tre dal vivo e tre raccolte. Ha ricevuto molti premi, tra cui cinque Music Awards, un Nastro d’argento alla migliore canzone originale e un primo posto al Festivalbar.
Alaska Baby già dal titolo, cinematografico è ispirato ad un vero e proprio viaggio esplorativo nel nuovo mondo di Cremonini, 12 brani, tutti autobiografici, di cui Cremonini è anche produttore artistico insieme ad Alessandro De Crescenzo e Alessio Natalizia.
Sono 12 canzoni che giocano con le strutture, i suoni, i generi, passando dal pop orchestrale all’elettronica con (quasi) tutto quello che c’è in mezzo, eppure in questo viaggio c’è un’unità e un “concept” di fondo che rende le canzoni come capitoli di un racconto: un’opera, appunto.
Il concept è quello del viaggio, letteralmente, fino all’Alaska per cercare l’aurora boreale, e, metaforicamente, la ricerca di se stesso, la rinascita.
La title track, che è anche lo statement dell’intero album, si apre con un’introduzione strumentale che evoca l’atmosfera maestosa di un kolossal, grazie a una sezione di fiati e timpani che costruisce una tensione melodica quasi cinematografica. Da lì in poi, l’album si dispiega come un caleidoscopio di suoni e generi, un mix che esplora territori diversi ma sempre con una curiosità inarrestabile, alla ricerca di nuovi orizzonti, di nuove frontiere sonore da conquistare.
Un’odissea poetica che ha condotto l’artista oltre i confini della sua città natale, Bologna, verso orizzonti lontani, alla ricerca di energia, ispirazione, metamorfosi e, soprattutto, di luce. Il viaggio, come metafora di un’evoluzione personale e artistica, è la lente attraverso cui Cremonini racconta la sua continua ricerca del senso e della realizzazione.
Le 12 tracce mescolano Brit pop, canzone d’autore, groove ipnotici alla Beck e ritornelli che omaggiano i Beatles, il tutto condito da collaborazioni che sono diventate «amicizie e amori».
Dei testi di Alaska Baby ne è co autore lo storico collaboratore Davide Petrella (TROPICO), uno degli artisti più fertili della musica italiana.
La copertina di Alaska Baby è minimalista e ricorda la neve dell’Alaska, con due sfere colorate che si uniscono per formare un simbolo ispirato alla Tomba Brion dell’architetto Carlo Scarpa e questo design simboleggia l’unione di due opposti e rappresenta il legame tra l’artista e il suo vissuto, visualizzazione dell’incontro e dell’unione dei due opposti in un’unica anima.
Le due sfere si fondono e i loro colori richiamano quelli delle aurore boreali, scelte come riferimento visivo da Cremonini per donare al progetto un’identità che lo legasse fortemente al suo vissuto. Il titolo fa riferimento al viaggio al viaggio di due mesi in America, fino all’Alaska e al circo polare artico, dell’inverno 2023.
Per questo viaggio, Cremonini si fa accompagnare da alcuni compagni di percorso che arricchiscono e diversificano l’esperienza musicale, artisti di spessore che, con il loro tocco unico, contribuiscono a un incontro di stili e influenze, tra questi, spicca Mike Garson, pianista leggendario e da sempre legato al mondo di David Bowie.
In “Alaska Baby” c’è un’apertura in grande stile: l’aggettivo “cinematografico” è abusato per descrivere certi arrangiamenti, ma l’effetto che viene cercato nell’intro è quello, quasi una sigla con fiati e chitarre. Poi la canzone procede con andamento irregolare, raccontando il viaggio verso il circolo polare americano, con inserti elettronici e un assolo finale di chitarra che cita George Harrison: “Cercavo l’America ma poi ho trovato te in Alaska Baby”, canta e mette diversi riferimenti alla cultura americana: “Mi sento Johnny Cash prima di trovare June Carter”
“Ora che non ho più te” è Il manifesto del nuovo sound, tra suoni retrò della canzone, elettronica e scrittura melodica cantautorale, con una produzione, opera di Alessandro De Crescenzo e Alessio Natalizia alias Not Waving, che richiama i suoni di Jack Antonoff-Bleachers e le canzoni di Harry Styles e The Weeknd. Un successo fuori da ogni previsione, anche nelle classifiche dominate dallo streaming: è arrivata fino al secondo posto, rimanendo in top 5 per settimane.
In “Aurore boreali” con Elisa, la voce eterea della cantautrice si amalgama perfettamente con quella di Cesare, che canta della paura di non essere all’altezza e del desiderio di normalità, di “stringerci le mani, dirci quello che abbiamo dentro e non rimpiangere il domani “. Apertura quasi ambient, con la voce di Elisa che si intreccia con quella di Cesare, poi la canzone parte elettronica con la cassa in 4/4 mentre le voci volano alte. Nel film dedicato all’album Cremonini racconta che ascoltava il provino di Elisa mentre aspettava l’aurora boreale in una tenda in Alaska, da qui il titolo e il racconto.
“Ragazze facili” èuna ballata al piano, un’erede di “Nessuno vuole essere Robin” e “Chiamala felicità” ma anche delle grande epiche anglosassoni alla Elton John o alla “Long december” dei Counting Crows, al piano c’è Mike Garson (già collaboratore di David Bowie) che suona assieme a Cremonini per richiamare proprio quel modello. Archi e qualche effetto di produzione, Elisa che torna ai cori, per una canzone in cui Cremonini, racconta, si mette a nudo come non mai
Cambio radicale d’atmosfera in “Dark Room” con Mike Garson, uno pezzo cupo dalla ritmica, che cresce, e cresce, fino a esplodere nel finale. Garson viene accreditato come featuring in questo brano scuro come il titolo, basato su pulsazioni ritmiche che si incrociano con il piano: “Siamo ancora in tempo, la vita inizia adesso, se muoio fa lo stesso, e non importa il resto, andiamo nella dark room”, con un finale in crescendo, con archi, voci e una chitarra con grande effetto.
In “Dark Room” c’è un assolo di chitarra che rimanda a quello di “While My Guitar Gently Weeps” di George Harrison, anche in “My Sweet Lord” i glissati della chitarra diventarono famosissimi, e guardando il video di quel singolo si vede come sia tutto anche lì giocato sulla luce e il buio in termini simbolici, in questo caso spirituali, con persone che si muovono con delle torce per poter vedere nel buio: “I really wanna see you, Lord” (“Desidero davvero vederti, Signore”), mentre Cremonini in “Dark Room” vuole esplorare un aspetto opposto, in cui la luce si spegne.
“San Luca” è un tributo alla sua città, alle camminate taumaturgiche nei suoi portici e a suoi spazi, una ballata classica e aperta nella quale Cremonini ha coinvolto una delle voci bolognesi per eccellenza, Luca Carboni, quando entra a metà canzone l’effetto è da brividi, per chi ama la canzone italiana: “Siamo tutti figli della luna, guardiamo la Madonna di San Luca, quando brilla nel buio, e poi pensiamo al futuro, sì”, poi si uniscono; “Capita anche a te di continuare ad aspettare i suoi miracoli io come te non li so fare ma poi è bellissimo sperare che non sia tutto qui, sì”.
Se metti insieme due grandi artisti ti immagini sempre qualcosa di importante, ma spesso vieni deluso dalle tue stesse aspettative. Questa volta no, la bellezza irradiata dalla canzone è clamorosa, a tratti disarmante. “San Luca” racconta Bologna e i bolognesi, ma descrive universalmente tutti noi: chi è nato e chi vive in quella o in altre città, chi crede, chi è agnostico, chi frequenta il santuario della Madonna di San Luca, chi c’è stato qualche volta e chi non ci ha mai messo piede. A pensarci bene, sembra quasi il sequel di “Chiamala felicità”, con la quale si chiudeva il precedente disco di Cremonini, perché tra le righe di “San Luca” c’è la ricerca profonda del senso della vita. Spesso, lo si trova nella spiritualità e nell’introspezione, nel dialogo più intimo con noi stessi, in una sorta di riparo sicuro dal caos del mondo esterno.
Luca Carboni non si limita a tornare alla musica; il 22 novembre ha inaugurato anche la sua mostra “Rio Ari O” al Museo della musica di Bologna. Questa esposizione celebra i 40 anni di carriera dell’artista, creando un affascinante dialogo tra la sua produzione musicale e le opere di arte visiva, tra cui dipinti e sculture. Si tratta di un’opportunità unica per i fan di immergersi nel mondo creativo di Carboni, che si estende ben oltre la musica, abbracciando molteplici forme d’arte.
La seconda metà di Alaska Baby comincia con il brano “Un’alba rosa” qui Cremonini canta le parole, le quali si insinuano sotto le coperte, per poi uscire dalle finestre, talvolta fanno male, talvolta ci accarezzano, accompagnandoci lungo il corso della notte, alla quale succede un’alba che si tinge di rosa e ci rimette al mondo. Il timore della solitudine, dei legami che continuamente demoliamo e ricostruiamo, diviene ora motore. Un’alba rosa procede a una notte senza fine, risuonando come un sentimento forte ed eterno. Al sorgere del sole di un giorno nuovo, si compie un atto di fede tramite cui poter, finalmente, rinascere.
In “Streaming”, ottava traccia, cambia l’andatura del passo di Alaska Baby. L’atmosfera si fa più ritmica, incoraggiante, inoltrandosi in una leggerezza da accogliere e, simultaneamente, abbracciare. Il profumo di un fiore diviene così poesia nello streaming.
“Limoni” la canzone più “leggera” del disco, basata su un giro ritmico che ricorda alcune cose del Peter Gabriel anni ’80, ma con un tocco contemporaneo, una leggerezza che si ritrova anche nel testo e nella scansione metrica piena di ripetizioni per accentuare il ritmo anche vocalmente. “Limoni”, che profuma proprio d’estate, ci ricorda il necessario atto rivoluzionario che si compie lasciandosi andare. Bologna incrocia una città lontana, probabilmente al sud della Francia, piena di agrumi e colori che fa scoppiare il cuore di amore.
“Il mio cuore è già tuo” vede l’ultima collaborazione di Alaska Baby, quella di Cesare Cremonini con i MEDUZA, nome d’arte dei produttori italiani Simone Giani, Luca De Gregorio e Mattia Vitale. Brano pop in cui la presenza dei Meduza (i re italiani dell’EDM, più famosi all’estero che in patria) trasforma la canzone in un brano massimalista alla Coldplay, un continuo crescendo, con drop e ripartenza, ma senza scadere nelle banalità di certe produzioni elettroniche del genere, “Amore lo giuro mi spezzi a metà, come fa, come fa, questo cuore è già tuo”
“Una poesia”, una canzone minimale acustica e beatlesiana, suonata da Cremonini con De Crescenzo e gli archi di Davide Rossi: “Una poesia non sarà, quel che innamorare ti fa, ma lui l’ha fatta per te, soltanto per te”
Con “Acrobati”, ultima traccia di Alaska Baby, Cesare Cremonini prega la sua stessa esistenza di lasciarlo tentare, ricominciando da capo, in un equilibrio dolcemente instabile. Un finale riflessivo ed epico, ancora con gli archi di Davide Rossi, una bellissima linea melodica e un crescendo con una ritmica quasi drum ’n’ bass che si fondo con suoni più tradizionali del piano. “Come posso fare a non sbagliare le parole, certamente è assai più facile mentire. Ma la voglia di rischiare, intramontabile per noi. Siamo acrobati sulle rovine”, canta Cremonini, e sembra parli di se stesso, del suo ruolo di artista oggi. “Noi distesi senza scarpe ai piedi. Fogli bianchi appesi senza età”.
Tra i brani spicca “Ragazze facili”, una canzone scritta in cinque minuti, una redenzione, il momento in cui butti giù la maschera e accetti il rischio di perdere tutto afferma lo stesso Cremonini. Non a caso il disco si chiude con “Acrobati”, che ci fa provare l’equilibrio precario dell’artista, costantemente sospeso tra ispirazione e giudizio. Ma sembra proprio che in questo equilibrio Cremonini trovi la forza di rimettersi in gioco: “Rimaniamo sempre dei fogli bianchi. L’unica cosa che possiamo fare è riempirli con sincerità”.
Alaska Baby diverrà anche un documentario, progetto inedito del quale Cremonini ne è produttore è protagonista, prossimamente disponibile su Disney+, il documentario attraverserà le tappe fisiche e sentimentali che l’artista ha compiuto.
Alaska Baby è un viaggio artistico tanto quanto umano, integrale fusione dell’uomo con la natura del mondo e delle cose.
Sin dal suo debutto, Cesare Cremonini è uno degli artisti italiani contemporanei che cerca costantemente di farsi portavoce dei sentimenti umani, riuscendo a pieno in questo intento.
Dodici brani che trasudano grazia e cicatrici a mio parere e Cremonini ci tiene tantissimo, e fa bene perché è un album molto ispirato e coraggioso e il tema che tiene insieme tutto è la rinascita e dice: “Alaska Baby è un disco nato al confine, in cui ha cercato un’altra volta di superare i miei limiti”.
Ma ciò che colpisce di questo nuovo progetto discografico, che lo stesso Cremonini definisce una “tempesta musicale “, è senza alcun dubbio il sound, capace di restituire immagini ben precise e tutto questo è merito, ancora una volta, del cantautore bolognese, da sempre abile nel trasformare in suoni e parole la vita che gli scorre intorno e tutto ciò che lo abita, compresa l’eccitazione nell’ammirare per la prima volta un’aurora boreale.
In questo album talvolta le atmosfere si fanno rarefatte, in un perenne movimento che dal buio conduce alla luce e viceversa, così come la leggerezza lascia spazio all’introspezione, alla profondità, per poi diventare nuovamente la protagonista come nella canzone “Limoni”.
Il brano “Alaska Baby” contiene anche un tema che ritroviamo in diversi pezzi dell’album: La Luce e il Buio.
Luce e Buio sono intesi in alcune frasi in senso fisico, come in “Ora che non ho più te” (” Spegni le luci della città, così che il cielo si illumina”) o in “Dark Room” (“Spegne la luce, non ti vedo più”).
In altri casi Luce e Buio sono immagini metaforiche che ci fanno pensare alle parti luminose e oscure di ognuno di noi, come in “Aurore Boreali” (“E noi fuori, fuori al buio…E noi fuori, pieni di luce…Io non lo so quand’è che ho perso, tutta la luce che avevo dentro…e noi fuori, tra luci e buio”). In “Aurore Boreali”, cantato in duetto con Elisa, i due aspetti di Luce e Buio, fisico e metaforico, si fondono in un tutt’uno, come le loro voci (“Forse non sarà la luce primordiale delle stelle nella notte o il fuoco acceso accanto a me ma il tuo respiro brucia ogni respiro, come ghiaccio sulla pelle e fiamme dentro me”).
Da parte mia è tutto.
Alla Prossima da SonoSoloParole.